Oggi ho chiamato Stefania per farle gli auguri – non lo facevo da 12 anni, infatti ero palesemente impacciata, lo era anche lei. Tanto è vero che mi ha chiesto perché non mi ero mai fatta viva prima. Che domanda imbarazzante per tutte e due, già a disagio. Pentendomi prima, dopo e durante, muovendo appena le labbra, ho risposto: ”Perché l’amore per tua figlia era più forte della nostra amicizia”. Turbata, ma non sorpresa, emozionata. Sentivo ogni singolo movimento della respirazione. Ho chiuso gli occhi per immaginarla in modo nitido, vicino al telefono, appoggiata con la fronte alla libreria (quante volte l’avevo vista così, mentre parlava con Stefano, il fidanzato di Eleonora, il suo amore segreto) – il suono della sua voce, facile a comprendermi anche adesso, a perdonarmi nei miei errori, nelle mie colpe, abbandonando ogni sentimento di astio e rancore. Parlavamo sottovoce, bisbigliando, per paura di farci ancora male. Sono contenta di averla chiamata. Sono contenta per me, di non aver chiesto niente di Francesca.Non riesco a pensare a Francesca che ha 30 anni. Magari è sposata. Magari ha dei bambini. Magari ama suo marito. Chissà se è dimagrita. Mio struggente, tormentato amore. Supplizio, sofferenza. Una fresca banalità….
Una storia bivalenteSono indecisa se la distillazione di questo amore sia stata frazionata o molecolare o addirittura distruttiva.Sono indecisa se ho voglia di guardare all’interno del recipiente di raccolta.Sono indecisa se ho voglia di sapere di quale determinato componente sia stata la concentrazione maggiore. Vapore, vuoto d’aria, ebbrezza. Sedici anni fa avevamo un sogno: fare il giro di Roma a bordo di un taxi bianco e che fuori piovesse. Due ragazzi fantasticamente appassionati alla vita che riuscivano a galvanizzare tutto attorno a loro. Io traboccavo di sentimenti intensi e romanzati. Tu straripante della tua stessa personalità fabbricata a misura e solo a tratti vera, attendibile, ma comunque incredibile. In questi sedici anni rappresentavamo uno stravagante duo legato dai sentimenti indistinti. Adesso penso che avevamo semplicemente paura di guardarci dentro, di capire che il nostro disperato bisogno di affetto a lunga scadenza era più forte e più importante del nostro orgoglio e della presunzione di poter farne a meno di tutti. Per sedici anni abbiamo giocato allo stesso gioco – competizione con gli altri basata sulla nostra rivalità interna, rivalità benevole verso gli altri, perché comunque già in partenza sapevamo di essere i migliori, ma noi due uniti e rafforzati dell’antagonismo…