“A mano a mano che ci si innalza nella scala degli esseri, aumenta la sensibilità nervosa, aumenta cioè la capacità di soffrire. Soffrire e pensare sarebbero dunque la stessa cosa?” Chissà in che unità di misura è possibile misurare il dolore – in giorni che passano mentre ti svegli e in quel preciso momento già sai che stai male a priori di ogni evento che potrà accadere dopo; in assurdità che sei disposta a fare per cambiare la situazione (soprattutto in peggio) o almeno alleviare l’intensità della sofferenza acuta, sorda, ovattata che ti brucia lo stomaco; in indifferenza con la quale guardi il tuo futuro perché non puoi immaginare che il futuro (qualsiasi!) può davvero esistere in questa sorta di gabbia che comunque ti protegge perché ti aiuta ad esercitare i primi passi nella tua nuova vita, in quantità di lacrime versate, in quantità di alcolici bevuti che non ti rendono mai ebbra a sufficienza, chissà… Il mio dolore di quella volta si misurò in paura che dopo non ci sarebbe stato più niente per me. Non è la solitudine, ma la sensazione “non di più e nient’altro”. Il nostro romanzo è morto da solo. Lasciandomi sola. Rendendomi tremendamente normale,…