Il 10 luglio del 2020 l’allora primo ministro italiano Giuseppe Conte è a Venezia per partecipare alla cerimonia di innalzamento paratoie del Mose. In quella occasione il suo discorso spazia dal padre dell’idealismo tedesco, Friedrich Hegel, alla conclusione del tutto inattesa quanto solenne.
“Completo questo breve intervento con una citazione di Iosif Brodskiy. Il poeta. Non cito una sua poesia ma qualche frase dal saggio “Fondamenta degli incurabili”. Diceva che Venezia è la città dell’occhio. “In questa città si può versare una lacrima in diverse occasioni. Posto che la bellezza sia una particolare distribuzione della luce, quella più congeniale alla retina, la lacrima è il modo in cui la retina ammette la propria incapacità di trattenere la bellezza”.
Il poeta. Senza aggiungere i riconoscimenti più famosi: Premio Nobel per la letteratura nel 1987 e nomina come Poeta laureato (United States Poet Laureate) nel 1991. Senza specificare l’origine e la nazionalità: ebreo, sovietico, russo, americano, apolide, cittadino del mondo. Il poeta. E mentre ascoltavo il professor Conte, incredula e commossa, mi sono ricordata di un’altra volta in cui lo stesso Brodskiy si definì esattamente e semplicemente così – il poeta.
Nel 1964 durante il processo che lo avrebbe condannato a 5 anni di lavori forzati in esilio per parassitismo sociale, Iosif ha 24 anni. Alle spalle un tentato suicidio, un primo attacco cardiaco e gli studi convenzionali abbandonati, appena quindicenne.
“Giudice: Qual è la sua professione?
Brodskiy: Poeta, poeta e traduttore.
Giudice: E chi ha riconosciuto che siete poeta? Chi vi annovera tra i poeti?
Brodskiy: Nessuno. (senza sfida) E chi mi annovera nel genere umano?
Giudice: Avete studiato per questo?
Brodskiy: Per cosa?
Giudice: Per essere un poeta! Non avete cercato di completare l’università dove preparano… dove insegnano…
Brodskiy: Non pensavo… Io non pensavo che ci si arrivasse con l’istruzione
Giudice: E come?
Brodskiy: Io penso che…(confuso) venga da Dio..”
Passerà un anno e mezzo in un villaggio sperduto nel distretto di Arhangelsk, estremo nord della Russia, dove accanto a lavori di fatica riesce tuttavia a dedicarsi alla scrittura e alla traduzione dall’inglese di Wystan Hugh Auden che lo sorreggeranno e convertiranno in positivo quell’esperienza.
Scrive: “Mi ricordo che stavo seduto in una piccola isba e guardavo fuori dalla finestra quadrata, delle dimensioni di un oblò, la strada bagnata, impantanata dove gironzolavano galline, credendo solo parzialmente a quello che avevo appena letto. Mi rifiutavo di credere che già nel 1939 un poeta inglese disse “Il tempo onora il linguaggio” “Time ….worships language” e il mondo circostante è rimasto lo stesso”
In una intervista del 1982 Iosif definisce l’esilio come uno dei periodi più felici della sua vita. “Uno dei periodi migliori. Ci sono stati dei periodi non peggiori. Ma uno migliore di questo, credo, non ci sia mai stato”.
Arriva negli Stati Uniti nel 1972, costretto a lasciare l’Unione Sovietica a fronte di una scelta dolorosa quanto drastica: espulsione immediata oppure carcerazioni e reclusioni in ospedali psichiatrici.
Non amava tuttavia raccontare nelle interviste delle privazioni subite, abbandonando decisamente l’immagine della “vittima del regime” a favore dell’immagine del “self-made man”. E quando (abbastanza spesso in verità) i giornalisti americani criticavano la sua posizione, esortandolo alla critica e alla condanna del sistema sovietico, rispondeva: «Sono una persona libera in un paese libero e ho diritto di dire quello che penso”.
Il suo viaggio oltreoceano passa per Vienna dove conosce personalmente Wystan Hugh Auden, uno dei suoi cinque poeti preferiti. Gli altri quattro sono Osip Mandelshtam, Marina Zvetaeva, Robert Frost, Anna Achmatova.
All’interno della valigia sulla quale viene fotografato, sono accuratamente sistemate poche cose essenziali: la macchina da scrivere, due bottiglie di vodka e la raccolta delle poesie di John Donne.
Questa valigia carismatica ha una sua storia. Arriva a Leningrado nel 1948, il padre di Josif, Alexander Brodskiy, la compra in Cina dopo la Seconda Guerra Mondiale. Dal 1972 fino al 1985 la valigia ha lo status di una compagna, è lei che segue Brodskiy in tutti i viaggi in Europa e America.
Vent’anni dopo, nel cortile della facoltà di filologia dell’Università di San Pietroburgo viene eretto il primo monumento in onore di Josif Brodskiy – ha la forma di una valigia con l’etichetta del bagaglio imbarcato.
Nel 2014 la valigia torna a San Pietroburgo e adesso fa parte dei reperti della casa museo di Anna Achmatova sul lungofiume Fontanka.
Mentre Brodskiy è negli Stati Uniti, i suoi genitori per ben dodici volte fanno richiesta di poter far visita al figlio, senza mai ottenerne il permesso. Allo stesso poeta verrà negato di presenziare al funerale tanto della madre quanto del padre.
Brodskiy preferiva non tornare in patria, sarebbe stato troppo da turista, diceva lui. “Bisogna ricordare e amare la città così come è rimasta nella tua memoria. E poi la mia parte migliore è già lì – le mie poesie”).
Nel Michigan si stabilisce nella cittadina di Ann Arbor. Sulla porta del suo studio all’università era appeso un foglietto con la frase “ Here are Russians” – “I russi sono arrivati” come risposta alla russofobia e all’isteria anti-russa nella società americana, (il 22 maggio 1949 il primo Segretario della Difesa degli Stati Uniti James Forrestal si gettò dalla finestra, e le ultime parole pronunciate dalla sua bocca furono: “I Russi stanno arrivando” – “The Russians are coming”).
Una volta, facendo l’analisi dell’ “Amleto” chiese agli studenti dove si trovasse la Danimarca. E quando nessuno fu in grado di rispondere, gridò indignato: “La nazione che non conosce la geografia merita di essere conquistata!”.
Iosif Brodskij ottiene il Nobel per la letteratura nel 1987, a 47 anni. Insieme a Rudyard Kipling (Nobel a 41 anni) e ad Albert Camus (Nobel a 44 anni) è il Nobel per la letteratura più giovane di sempre.
«Per me», disse Iosif Brodskij nel suo discorso del 1987 per il Premio Nobel, «non c’è dubbio che, se scegliessimo i nostri governanti sulla base della loro esperienza di lettori e non sulla base dei loro programmi politici, ci sarebbe assai meno sofferenza sulla terra. Credo che a un potenziale padrone dei nostri destini si dovrebbe domandare, prima d’ogni altra cosa, non già quali siano le sue idee in fatto di politica estera, bensì che cosa ne pensi di Dostoevskij, Dickens, Stendhal. Già per il fatto che il pane quotidiano della letteratura è proprio l’umana diversità e perversità, la letteratura si rivela un antidoto sicuro contro tutti i tentativi, già noti o ancora da inventare, di dare una soluzione totalitaria, di massa, ai problemi dell’esistenza umana».
«La vita tende al cliché. Nell’arte lo possiamo evitare. È per questo che leggiamo. L’opera rigetta il cliché. È per questo che scriviamo».
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