Ma l’immagine più forte, quella che anche a colori rimane sempre in bianco e nero (o meglio in nero e bianco) è la foto del podio per premiazione dei 200 metri maschili. Il pugno nero di Tommie Smith e John Carlos. (vollero indossare dei guanti per non toccare, anche di striscio, chi avrebbe dovuto complimentarsi con loro per la vittoria e premiarli rispettivamente con la medaglia d’oro e di bronzo).
La foto fu scattata da John Dominis, il fotografo di Life, lo stesso che aveva immortalato il 26 giugno 1963 John Kennedy acclamare «Ich bin ein Berliner» a Rudolph-Wilde-Platz.
Al secondo gradino, in mezzo a due pugni neri e due teste basse, c’è Peter Norman.
Il ragazzo bianco il cui sguardo non ha alcuna traccia di paura. Lui, infatti, manifesta a testa alta, guarda davanti a sé, condivide pienamente il gesto ma non ruba la scena. Loro sono i ribelli, lui sta vicino senza essere un intruso. Sul petto il distintivo dell’Olympic Project for Human Rights, recuperato in fretta negli spogliatoi da un altro bianco, Paul Hoffman, timoniere della squadra USA di canottaggio, un «piccolino» coraggioso. (Per questo, fu successivamente allontanato dalla nazionale e accusato di cospirazione).
(Olympic Project for Human Rights era il movimento di atleti neri di cui facevano parte anche Smith e Carlos. Nacque dal pensiero del sociologo Harry Edwards alla San Jose State University : fu lui a lanciare la proposta-provocazione del boicottaggio degli afro-americani a Città del Messico).
In pista
“Non avrei mai pensato che un bianco potesse correre così veloce”, disse Carlos di Norman.
Peter non aveva mai corso in altitudine ma, contrariamente al suo connazionale Ron Clarke, a 2000 metri abbondanti di quota si trova benissimo.
Da Norman non si aspettano risultati sensazionali. È il miglior sprinter d’Australia ma ha già 28 anni e ha mai né partecipato alle Olimpiadi né corso sul tartan. Nel suo palmares non figurano grande vittorie. Arriva a correre per caso, dopo aver praticato per anni il salto in alto.
In Messico migliora il record olimpico già nelle batterie.
In finale parte dalla sesta corsia e ha tutti i grandi rivali all’interno. Smith corre sulla terza corsia e Carlos sulla quarta. Tommie non indossa i soliti occhiali da sole, è già sera, quasi buio. Carlos parte meglio di tutti, in curva stacca più di un metro sugli avversari ma quando entrano in rettileo Smith con una potenza che sa più di eleganza che di sforzo, con la grazia, spirito e fuoco (non a caso lo chiamano Tommie Jet!) accelera e vola verso il traguardo con le braccia alzate. Carlos è ancora secondo, corre e guarda solo Tommie, mentre il vero pericolo è alla sua destra. Peter Norman lo sorpassa a pochi metri dall’arrivo. Non ha la potenza e spirito di Smith, ma la tranquilla convinzione di poter fare la differenza. Chiude in 20.06 secondi, dopo mezzo secolo ancora record australiano. Un tempo che gli avrebbe consentito di vincere la medaglia d’oro anche a Sydney 2000.
Negli spogliatoi
Chissà cosa pensa Peter prima di avviarsi con altri due al prato per la premiazione. Magari immagina come sarà accolto al suo arrivo a casa, quanta gente lo aspetterà all’aeroporto, ai flash dei giornalisti.. Oppure alla possibilità di insegnare la ginnastica a scuola, trasmettere il proprio entusiasmo per la corsa a qualcuno che farà meglio di lui nelle altre Olimpiadi.
Chissà se ha tempo di pensarci. Forse no. Forse quando si ritrova con Smith e Carlos prima della premiazione, i loro discorsi lo catturano: parlano di piedi scalzi durante la premiazione, come quelli dei troppi afroamericani che vivono in povertà. Carlos però ha scordato i guanti neri al Villaggio Olimpico. Norman suggerisce di indossarne uno a testa. Smith pensa che l’australiano, bianco come un inglese, nel suo irripetibile giorno di gloria debba pensare a godersi il podio e a non immischiarsi. Che ne sa lui, il bianco, del Black Power? Che ne capisce di diritti negati?
Norman, però, lo convince.
Perché ne sa qualcosa anche lui, cresciuto in una famiglia devota ai valori dell’Esercito della Salvezza. Gli è stato insegnato che le persone contino in quanto tali, senza discriminazioni.
Perché cresciuto in un paese dove i “negri” si chiamano aborigeni ed è l’unica differenza tra l’apartheid australiano e le leggi razziali americane. In Australia gli aborigeni hanno ottenuto il diritto di voto solo nel 1962 e hanno iniziato ad essere considerati nei censimenti nazionali solo nel 1967.
Mentre Peter sta nell’angolo e cerca di sistemare al meglio i lacci delle scarpe, negli spogliatoi entra Jesse Owens, il campione di Berlino del 1936. Arriva lì su richiesta (diciamocela tutta, ordine non negoziabile) del Presidente del CIO Avery Brundage che fiuta qualcosa nell’aria e spera che l’intervento di Owens possa far evitare qualche esibizione non contemplata.
(Un piccolo passo indietro. Brundage fu il Presidente dell’USOC (Comitato Olimpico degli Stati Uniti) nel 1936 e rifiutò di boicottare i Giochi Olimpici di Berlino. Proprio alle Olimpiadi di Berlino accade un evento strano: la mattina della gara della staffetta 4×100, Marty Glickman e Sam Stoller, gli unici due atleti ebrei della nazionale statunitense, vengono all’ultimo momento sostituiti da Jesse Owens e Ralph Metcalfe. Glickman rivelerà in seguito che molto probabilmente la sostituzione era stata “caldeggiata” da Brundage stesso.)
Jessie Owens non parla con Peter, la sua preoccupazione è di convincere altri due (soprattutto Tommie Smith, ancora infiammato per la vittoria scintillante) di astenersi da qualsiasi tipo di manifestazione. Cerca di farli ragionare sulle possibili conseguenze che sarebbero immancabilmente verificate nel caso avessero davvero intrapreso la strada di protesta pur silenziosa.
Peter è sbalordito. Come può un uomo tanto ammirato per la sua dignità, ineccepibile onestà e forza morale cercare di impedire una contestazione del genere. Sottolineiamo, silenziosa. Non pianificavano mica di incediare la bandiera degli Stati Uniti oppure gridare “Brundage è un nazista”.
Ci mette del suo anche Bob Beamon, folle ed incauto solo in pista. “Vi porteranno via tutto, anche la casa”.
Mentre stanno uscendo dagli spogliatoi, viene scattata una foto, forse meno conosciuta di quella che entrerà nella storia dello sport e dei diritti umani. Tommie è visibilmente teso, preoccupato, Carlos non guarda nemmeno il fotografo e Peter fa l’occhiolino. Che significa? Non è solo il segno di intesa, di solidarietà o simpatia. Come se stesse inviando un messaggio di cui nessuno è ancora a conoscenza.
Sul podio
Dopo essere saliti sul podio per la premiazione Smith e Carlos ricevettero le medaglie, si girarono verso l’enorme bandiera statunitense appesa sopra gli spalti e aspettarono l’inizio dell’inno. Quando le note di The Star-Spangled Banner risuonarono nello stadio, Smith e Carlos abbassarono la testa e alzarono un pugno chiuso.
Dopo il podio
Negli anni che seguiranno le tracce di Norman sembrano di perdersi. Non viene convocato per i Giochi di Monaco del 1972 (dove sicuramente avrebbe dato il filo da torcere a Valery Borzov )nonostante avesse ottenuto 13 volte il tempo di qualificazione per i 200 metri piani e 5 volte il minimo per i 100. Per la prima volta nella storia, l’Australia si presenterà alle Olimpiadi senza velocisti.
Eppure, Norman non ha mai portato rancore verso quei dirigenti. E nemmeno verso chi, nel 2000, non invita il più grande velocista australiano di sempre per i Giochi di Sidney.
Ma la storia ogni tanto ha un’ottima memoria. Oppure le persone che fanno la storia non dimenticano facilmente.
È la delegazione Usa che lo fa volare a Sydney per la finale dei 200 metri. È l’ospite d’onore, Michael Johnson che ha da poco festeggiato il compleanno lo riconosce e lo riempie di ringraziamenti per quel che scelse di fare su quel metro quadro di terra una sera d’ottobre di 32 anni prima. “Sei il mio eroe” gli dice Johnson, che lo abbraccia mentre Edwin Moses, due ori olimpici e due titoli mondiali, gli tiene aperta la porta. La storia si capovolge, adesso sono i neri che difendono un bianco.
Non ha potuto vedere, Norman, come nel 2012 il Parlamento australiano si sia scusato per il trattamento che gli era stato riservato, e abbia riconosciuto il suo ruolo in favore dell’uguaglianza.
“Ha pagato il prezzo della sua scelta – spiegò Tommie Smith – Non è stato semplicemente un gesto per aiutare noi due, è stata una SUA battaglia. È stato un uomo bianco, un uomo bianco australiano tra due uomini di colore, in piedi nel momento della vittoria, tutti nel nome della stessa cosa”.
Negli anni, infatti, Peter rimase in contatto con Smith e Carlos, che rivide a Città del Messico nel 2005 per l’inaugurazione di un monumento a loro dedicato a San José, California, la loro vecchia università. In quella statua non c’è Peter Norman, come se fosse stato dimenticato dalla storia. «Ci ha chiesto lui di non apparire nell’opera – confessò più tardi Carlos, in un’intervista tv – voleva che il suo posto sul podio fosse lasciato vuoto. Affinché chiunque salisse in seguito su quella statua potesse provare le stesse sensazioni».
L’ultimo incontro – Da sinistra: Peter Norman, John Carlos e Tommie Smith nel 2005 alla San Josè State University per l’inaugurazione della statua commemorativa della premiazione olimpica del 1968
Quando, nel 2006, Norman morì 64enne per un attacco cardiaco dopo aver passato lunghi periodi di depressione, Tommie e John, volarono a Melbourne e portarono la bara dell’amico.
Ci sono scelte che non richiedono tempo per pensare. Non perché siano giuste ma perchè non si può fare diversamente. Fanno parte del proprio modo di vivere, che è un insieme di pensare, sentire e credere. Quelle scelte che non ti fanno perdere equilibrio, che non ti fanno voltare indietro, perché tu sai (a volte solo tu, ma quasi sempre basta) che ogni azione è un boomerang, soprattutto se lanciato correttamente. Compie una traiettoria ellittica, tornando alla persona che l’ha lanciato. Chi meglio di un australiano potrebbe esserne un esempio???!!!
I’ll stand by you
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