Oggi ho chiamato Stefania per farle gli auguri – non lo facevo da 12 anni, infatti ero palesemente impacciata, lo era anche lei. Tanto è vero che mi ha chiesto perché non mi ero mai fatta viva prima. Che domanda imbarazzante per tutte e due, già a disagio. Pentendomi prima, dopo e durante, muovendo appena le labbra, ho risposto: ”Perché l’amore per tua figlia era più forte della nostra amicizia”. Turbata, ma non sorpresa, emozionata. Sentivo ogni singolo movimento della respirazione. Ho chiuso gli occhi per immaginarla in modo nitido, vicino al telefono, appoggiata con la fronte alla libreria (quante volte l’avevo vista così, mentre parlava con Stefano, il fidanzato di Eleonora, il suo amore segreto) – il suono della sua voce, facile a comprendermi anche adesso, a perdonarmi nei miei errori, nelle mie colpe, abbandonando ogni sentimento di astio e rancore. Parlavamo sottovoce, bisbigliando, per paura di farci ancora male. Sono contenta di averla chiamata. Sono contenta per me, di non aver chiesto niente di Francesca.
Non riesco a pensare a Francesca che ha 30 anni. Magari è sposata. Magari ha dei bambini. Magari ama suo marito. Chissà se è dimagrita. Mio struggente, tormentato amore. Supplizio, sofferenza. Una fresca banalità. Amai questo stupido soggetto disperatamente, quasi fuorilegge, tormentando a mia volta i miei amori di quel momento. Stato psichico sospeso da ogni comunicazione con il mondo esterno, privilegiando l’inclinazione innata verso gli inganni intellettuali e sentimentali, accorgendomi tuttavia della profondità immensa fra le nostre anime.
Perché per stare con lei avevo dovuto litigare con tutto il mondo? Per poi ritrovarmi in un vuoto, sottovuoto, vuoto d’aria, che determinò un’improvvisa perdita di quota del mio aereo che si alzava sempre in volo anche dalle piste più improbabili. Mi aveva tolto ogni interesse, vitalità, mi aveva privato dei miei amici. Mi aveva svuotato di me stessa. Perché la prima parola che mi viene in mente, riandando col pensiero all’estate del 1993 è “vuoto”?
Mi innamorai di lei nello stesso istante in cui lei posò la mano sulla mia schiena. Distratta guardavo il prato dietro la loro casa, pensavo a Russel, al mio nuovo vestito a fiorellini, che dovevo indossare per il nostro prossimo incontro a Roma (improbabile dal punto di vista logistico e logico, ma mi lasciavo facilmente allettare da un capriccio passeggero. Sapevo comunque che non sarebbe stato duraturo). Lei mi si avvicinò con la solita scusa di una sigaretta e nel ringraziarmi mi accarezzò la schiena. Non aveva ancora compiuto 18 anni.
Passavo con lei ogni pomeriggio libero, inventavo i motivi più o meno fittizi con i quali cercavo di disdire appuntamenti, incontri, cene. Vivevo in uno stato di autointossicazione assolutamente cosciente, ripromettendomi ogni mattina di liberarmi di quella oppressione assillante. Non ci riuscii nemmeno dopo aver scoperto la sua storia con Roberta .
E in mezzo all’intreccio confuso e scomodo c’era Stefania, con la sua smisurata generosità verso di me – Stefania, stanca delle presunte e vere storie esagerate di sua figlia maggiore con le crisi isteriche che ne derivavano, il marito troppo grande, le difficoltà economiche, due bambine piccole da accudire, Eleonora che non voleva più andare a scuola, l’innamoramento violento e improvviso di Stefano, e in mezzo all’aggrovigliamento babelico io che la trascinavo verso il mondo nuovo di una cultura diversa, in una realtà tutta inventiva fatta dei miei eccessi e della mia energia.
Presi una brutta abitudine quella di andare a dormire da loro – dormivano sullo stesso divano in tre, – io, Eleonora, Francesca. A volte succedeva che nelle primissime ore del mattino lei si avvicinasse a me nel sonno e mi abbracciasse. Rimanevo immobile per paura di svegliarla. Rimanevo sveglia per paura di addormentarmi proprio in quel momento. Lasciai Roma con la speranza di allontanarmene per sempre e tornai appena due settimane dopo.
Negli anni e mesi che seguirono abbiamo vissuto più momenti brutti, travagliati, penosi, dolorosi che attimi di contentezza reale o illusoria. Litigavamo quasi sempre, scenate di gelosia, insulti, rotture e ripacificazioni, lacrime, lunghe telefonate di notte con le bollette astronomiche, le lettere, le mie fughe ad intermittenza, le sue crisi di nervi, il mio senso di colpa – tutto avvolto in uno spesso strato di commovente, struggente dolcezza, diluito con la passione a convulsione febbrile che non abbiamo saputo vivere senza soffocarci, impedendole nel suo sviluppo naturale di diventare un’affettuosa amicizia.
La vidi per l’ultima volta sette anni fa, d’inverno, aspettai per più di tre ore al freddo sferzante, interrogandomi con insistenza “perché io a 29 anni devo passare il mio sabato aspettando una ragazzina che non amo più, che giurai di non amare più, affermandolo in verità con delle promesse sincere”. Cedetti al nostro incontro perché in mezzo come sempre c’era Stefania. Stefania mi mandava un regalo. Dovevo andare a prenderlo. Francesca mi disse al telefono: “Fallo per mia madre. So che non vuoi mai più rivedermi.”
La trovai diversa, non più immagine alla maschietta – ragazza dall’aria indipendente e birichina. La voce era ancora più bassa e roca, ma i frantumi dei suoni, quando rideva, erano quelli di una volta; ad ogni frammento di riso dal mio cuore rammendato veniva via una pezza, fatta d’impegni e giuramenti presi. Di quello che le dissi mentre passeggiavamo sulla neve scintillante che emetteva un rumore secco e stridulo ad ogni nostro passo, aiutandomi a pronunciare chiaramente le parole, dando spicco ad ogni sillaba – mi vergogno profondamente, ma non rimpiango niente. Provo solo dolore al fatto di non poter mai più dire queste parole, almeno con la stessa luminosa intensità agonizzante e attraversare ancora una volta quel campo elettromagnetico, la cui grandezza, non – regolabile, si riproduce difficilmente.
”Il grande problema della vita è il dolore che si provoca, e la metafisica più ingegnosa non giustifica l’uomo che ha straziato il cuore che lo amava”.
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